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Stereotipi e razzismo nelle campagne pubblicitarie

Parliamo di Volkswagen che ha subito ritirato la pubblicità sui social per la nuova Golf, scusandosi. Riprendiamo il video promozionale della sfilata a Shangai di Dolce & Gabbana del 2018. E diamo un'occhiata al tema degli stereotipi di genere e a come è monitorata la pubblicità per far si che non riproducano pregiudizi dannosi per le identità.

Stereotipi e razzismo nelle campagne pubblicitarie

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C’è chi dice che la pubblicità sia il riflesso della nostra società, uno strumento che consente alle persone di rispecchiarsi in una realtà che rende tutti un po’ più simili e allo stesso tempo di consolidare opinioni e idee diverse da quelle di partenza. Accade quindi che, con l’intento di semplificare, nascano anche nel mondo pubblicitario degli stereotipi. A volte strappano una risata, altre volte invece umiliano, discriminano e creano pregiudizi verso chi è “diverso”: si tratta di vere e proprie forme di razzismo a discapito, soprattutto, di minoranze etniche, religiose e sessuali. Una grande perdita di opportunità sia per i consumatori, sia per il brand.

Razzismo e minoranze etniche

Negli anni 50 e 60 erano molti i riferimenti sessisti o razzisti negli annunci pubblicitari: cartelloni in cui le donne erano completamente dipendenti e sotto il comando dei mariti, avendo come unici compiti la gestione della famiglia o la pulizia della casa. Si vedevano anche stampe con afroamericani in un contesto volto a far risaltare la diversità del colore della pelle. Oggi campagne pubblicitarie così aggressive sono rare, ma accade che qualche grande marchio faccia delle scelte comunicative molto discutibili.

Il caso Volkswagen

È il caso di Volkswagen, che in un periodo di grande fermento come quello degli ultimi due mesi – a seguito della morte di George Floyd e delle proteste del movimento Black Lives Matter – pubblica su Facebook e Instagram un’inserzione che ha portato l’azienda, dopo qualche giorno, a delle pubbliche scuse. Nel video vediamo una gigantesca mano che entra nell’immagine e allontana dalla Golf un uomo di colore spingendolo in un negozio dall’insegna: “Petit colon”, piccolo colono. Quando appare la scritta in tedesco “La nuova Golf”, le prime lettere che compaiono formano la parola “Neger” che non necessita traduzione.

Elementi che non sono passati inosservati agli occhi del pubblico, che ha evidenziato come il marchio automobilistico tedesco abbia fatto ricorso in più di un’occasione a messaggi poco virtuosi. In Germania sembra esserci un problema con il razzismo latente nelle pubblicità: Noah So, fondatore dell’associazione “Der braune Mob“ che monitora il razzismo nei media e nella pubblicità, ha dichiarato in un’intervista di aver proposto un sondaggio alla popolazione tedesca per valutare quanto gli stereotipi razzisti incidono nella loro vita. È emerso che la maggior parte dei tedeschi ritiene perfettamente normale deridere alcune minoranze razziali: la popolazione asiatica, per esempio, viene considerata lo zimbello del Paese.

Pubblicità e moda

Anche il mondo orientale effettivamente è spesso vittima di razzismo nell’ambito pubblicitario, un caso che è balzato agli onori della cronaca è stato quello di Dolce & Gabbana nel novembre 2018. Il marchio milanese, oltre ad aver ricevuto accuse di razzismo, è stato criticato per le frasi sessiste utilizzate nel video di promozione di un’importante sfilata che si sarebbe dovuta tenere a Shangai. Il condizionale è d’obbligo perché dopo le polemiche e le campagne di boicottaggio del marchio, la sfilata è stata cancellata nonostante il mea culpa dei due stilisti. Nel filmato incriminato, una ragazza cinese cerca di mangiare un cannolo siciliano con le bacchette mentre una voce fuori campo le chiede in cinese: “È troppo grande per te?”.

La lotta agli stereotipi di genere

Un altro tipo di stereotipo spesso utilizzato in passato in campo pubblicitario, è quello di genere. Non sono totalmente scomparsi infatti gli stereotipi della donna casalinga dedita alla gestione della famiglia e della casa e quello del marito lavoratore, colui che ha il dovere di mantenere economicamente la famiglia e il suo stile di vita. Esistono ancora anche se in misura decisamente minore rispetto al passato.

Nel giugno 2019 l’ASA (Advertising Standards Authority), l’organizzazione di autoregolamentazione del settore pubblicitario del Regno Unito, ha posto nuove regole in merito alle pubblicità che alimentano pregiudizi sessisti. Sono state vietate quelle pubblicità che riproducono “stereotipi di genere dannosi” o che potrebbero causare “reati gravi o diffusi”. Nell’arco di poche settimane sono stati vietati due spot, uno di Philadelphia e l’altro di Volkswagen, poiché violavano le nuove regole. Si potranno sempre mostrare donne che fanno la spesa o uomini che si dedicano al fai-da-te, ma in pratica vengono banditi quei classici luoghi comuni che sminuiscono le identità – come la donna che non riesce a parcheggiare l’auto o l’uomo che non riesce a cambiare un pannolino – finendo per influenzare l’immaginario collettivo e aumentare il divario di genere.

In Italia esistono alcuni account – come Occhio allo Spot su Twitter – che monitorano in modo costante e (decisamente) meticoloso il tema delle discriminazioni di genere in pubblicità.

Insomma, piccoli passo in avanti per la pubblicità, grandi passo per l’uomo. Forse la pubblicità che utilizza stereotipi o pregiudizi non è ancora percepita nella sua intera pericolosità, ma è pur vero che nel corso del tempo ci sono stati esempi di come questo tipo di narrazione contribuisca a un consolidamento degli stereotipi nella società oltre che a causare danni economici e d’immagine per i soggetti coinvolti.

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